“L’uomo non può possedere niente fintanto che ha paura della morte. Ma a colui che non la teme, appartiene tutto. Se non esistesse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i suoi limiti, non conoscerebbe se stesso”.
Lev Tolstoj
A dispetto del titolo, quella di cui sto per parlare è una storia d’amore, di un grande amore.
Ci sono lavori in cui la fotografia assurge a strumento per esorcizzare il dolore, e mi sono spesso chiesto se io stesso sarei capace di renderlo tale, senza riuscire a darmi ancora una risposta precisa; nel caso di Cancer family di Nancy Borowick, c’è comunque qualcosa di più dell’aspetto ‘terapeutico’.
Quello che emerge fortemente è il sentimento di due persone, un amore grande, che consente loro di condividere perfino la malattia, con estrema dignità.
Lo guardo e lo riguardo da tempo, con diversi sentimenti spesso anche contrastanti: innanzitutto ammirazione per il coraggio di raccontare questa storia d’amore e morte e soprattutto per essere andata ‘oltre’ .
Ci vuole il famoso pelo sullo stomaco. Non è un giudizio, non è il caso di esprimersi al riguardo, anche se in molti lo hanno fatto e probabilmente lo faranno. E’ più giusto guardare con rispetto senza entrare nell’etica del lavoro stesso e sull’opportunità di realizzarlo. Scelte del genere sono così personali ed intime per prestare il fianco a giudizi esterni. Per tanto la mia è un’osservazione da spettatore imparziale, quasi dimenticassi che l’autrice delle fotografie ha un legame strettissimo con i protagonisti di questa storia.
Appunto i protagonisti, i signori Borowick, che in questo percorso condiviso, trasmettono serenità con i loro sguardi, non smettono di essere innamorati della prima ora, e questo si evince dagli atteggiamenti scherzosi spesso protagonisti in tante delle fotografie che compongono questo mosaico.
Sembra una sfida a questa malattia invincibile, seppure l’esito sia scontato e consapevole.
E poi la consapevolezza: l’immagine in cui marito e moglie scelgono quella che sarà la loro ultima dimora nel cimitero di Beth David, è di una sincerità che spiazza lo spettatore, molto più di qualsiasi esplicita immagine che racconti la malattia.
Risulta perfino ‘leggera’ la loro inevitabile separazione; quella divisa da baseball che spicca nella bara del papà, è un segno continuità, una sorta di pausa dalla vita e dalla propria compagna.
Ed in tutto questo la figlia/fotografa è sempre lì, testimone silenziosa dell’ultimo miglio di una vita insieme; sempre presente, sempre con la sua fotografia a raccontare poesia, dolore e dignità.
Ma il percorso non si interrompe con la morte, va oltre, quasi a voler rendere immortali i genitori; non c’è solo la volontà di preservare un ricordo in Cancer family, c’è un qualcosa di molto più grande e profondo, che difficilmente si può esprimere a parole, ma che possiamo sicuramente ammirare nelle immagini di questo emozionante viaggio.
La fotografia come testimonianza duratura, nel ruolo che più le compete; chi meglio di una figlia poteva donare al mondo una visione così umana e delicata di chi le ha donato la vita.
Considero questo progetto un dono; spesso quando sono così personali, si tende a non mostrarli, a custodirli in un cassetto , ma stavolta questo cassetto si è aperto regalando grandi emozioni.
L’amore, non solo oltre la morte, infinitamente oltre….
